mercoledì 25 marzo 2009

"Dove andrà a finire l'economia dei ricchi"

Domenico De Simone - 25 marzo 2009 - http://www.youtube.com/user/domenicods

4) Lo Stato
Ciò che conta è il puro dato statistico, dal quale si evinca che la produzione abbia avuto un incremento. Un esempio divertente di questa stortura nel calcolo di un Totem come il PIL, è data da questo fatto che si è recentissimamente verificato negli USA. Sappiamo che il PIL è composto, tra l’altro, dal saldo della bilancia dei pagamenti, ovvero dalla somma algebrica delle esportazioni, con il segno positivo meno le importazioni. Ebbene, se si verifica un forte calo delle importazioni, per effetto di una crisi, che evidentemente si riflette in minori consumi, il PIL cresce, poiché quel saldo si sposterà decisamente verso il positivo. L’effetto sarà, quindi, di un’apparente crescita della ricchezza, che però produce (relativo) impoverimento tra la gente.
Allora cerchiamo di capire quali incongruenze si nascondano dietro la realizzazione dei modelli di equilibrio e quali conseguenze aberranti essi comportino.

Il livello dei prezzi dipende da quattro variabili:

1) i costi di produzione, 2) la domanda, 3) l'offerta e 4) la quantità di moneta in circolazione.

Dobbiamo considerare che, per ragioni storiche, la variabile costi tende a diminuire mentre la variabile quantità di moneta tende ad aumentare, entrambe con andamento non lineare ma con direzionalità costante.
Anche le altre due variabili principali, domanda ed offerta, tendono storicamente ad aumentare in relazione diretta l'una con l'altra. La teoria dell'equilibrio descrive l'andamento dinamico delle quattro variabili e la loro relazione con altre due variabili, il tasso di disoccupazione ed i profitti che dipendono nel loro insieme dalle variabili considerate e, a loro volta, ne determinano l'andamento.

Nelle condizioni ideali, il tasso di occupazione è costante, costi e profitti diminuiscono, offerta e domanda crescono in parallelo e la quantità di moneta cresce meno del tasso di riduzione dei costi[1].
Da decenni la crescita del sistema è assicurata dal controllo di queste variabili effettuata dall'intervento dei governi su costi, occupazione ed offerta, e delle autorità monetarie sulla quantità di moneta. Profitti e domanda sono determinati di conseguenza dal mercato.

In questo bel quadretto, si spiegano gli interventi delle banche centrali sui tassi di interesse, che determinano la quantità di moneta creata, le preoccupazioni sulla riduzione del tasso di occupazione o su una sua eccessiva crescita, la necessità di rallentare la crescita (id est la produzione) per evitare squilibri con la domanda o di tenere a freno i consumi per non esercitare pressioni sui prezzi, eccetera, eccetera.
I tassi di crescita dei paesi occidentali ed in misura diversa, del mondo intero negli ultimi tre decenni, danno lustro ed affidabilità al modello.
Ci sono però alcune cose che questo modello non dice e che falsificano l'intero ragionamento.

5) L’economia del debito
La prima cosa che non ci dice, è che il presupposto della crescita è un indebitamento crescente del sistema, sotto forma d’indebitamento privato (famiglie ed imprese) e pubblico (stato ed enti pubblici). La questione coinvolge sia l'equilibrio del sistema sia la natura stessa del potere.
In altri termini, la variabile quantità di moneta, che dal modello appare neutra, nasconde una distribuzione ineguale delle risorse finanziarie che incide in maniera determinante sia sulla qualità che sulla misura della domanda complessiva.

Immaginate che qualcuno vi proponga un lavoro, una casa ed anche i soldi per mangiare e per gli svaghi. Ne sareste felicissimi, credo. Dopodiché scoprite che i soldi che vi da per il vostro lavoro sono meno di quelli che vi servono per vivere, per cui ogni mese vi indebitate un po’ di più e su questo debito pagate anche interessi che aumentano il vostro indebitamento. E’ ragionevole ritenere che la vostra felicità scomparirebbe immediatamente?
Un film degli anni settanta proponeva un tema simile ambientato in una piantagione del sud degli Stati Uniti.
Il protagonista, vedovo con due figli piccoli, è alla ricerca di un lavoro e di una sistemazione decente. Capita in un’azienda agricola dove cercano dei lavoranti. Gli viene proposto uno stipendio di mille dollari al mese (incredibilmente alto), la casa, l’alimentazione, la macchina, gli svaghi e la scuola per i figli.
Lui trova le condizioni che gli vengono proposte straordinariamente soddisfacenti, e si mette alacremente al lavoro. Per la verità, la casa è una stamberga invivibile, l’automobile uno scassone inguidabile, il mangiare fa schifo e gli svaghi sono inesistenti, ma non si può andare troppo per il sottile nella sua situazione.

Alla fine del mese la sorpresina. Eh già, perché quando va a ritirare lo stipendio. dopo un mese di duro lavoro, gli viene detto che al suo stipendio di mille dollari devono essere detratti 600 dollari per l’alloggio, 400 dollari per il vitto ed altri 400 dollari per la macchina, le bevande e gli svaghi (il whisky era un po’ caro).
Insomma, dopo un mese di duro lavoro, non solo non aveva guadagnato nulla ma era debitore in totale di 400 dollari. Nel film, come era prevedibile, la questione è finita a pistolettate.
Nel mondo sta accadendo la stessa cosa, ma stranamente nessuno se ne lamenta. Il debito pubblico dello Stato aumenta ogni anno in termini assoluti. Ciò che si riduce e su cui si interviene, è il deficit pubblico, che è uno degli elementi che determina il tasso di crescita del debito[2].

All’aumento della massa finanziaria per mezzo dell’indebitamento, corrisponde un impoverimento della popolazione e non un suo arricchimento.
In effetti, nel mondo occidentale, si sta verificando una crescita dell’impoverimento degli strati di popolazione tradizionalmente poveri, e l’ingresso nella fascia di povertà anche di settori della classe media.
Infatti, l’aumento della massa finanziaria, comporta un incremento in termini assoluti degli interessi che sono pagati su tale massa, dato che le emissioni monetarie avvengono, in pratica, solo per il tramite del meccanismo di creazione di denaro da parte delle banche. In altre parole, più si produce con il lavoro e più ci si indebita verso il sistema finanziario che, invece di essere di stimolo per le attività produttive, per le dimensioni che ha raggiunto è diventato una palla al piede del sistema economico. Per questa ragione, chi non possiede strumenti finanziari, e vive solo di lavoro, diventa necessariamente più povero, mentre chi possiede strumenti finanziari diventa allo stesso tempo più ricco.

Un esempio illuminante del vicolo cieco in cui si è cacciato il sistema, è dato dal particolare meccanismo di emissione di titoli di debito in deficit pubblico.
In pratica, il deficit pubblico consiste nella quantità di denaro necessaria per coprire le spese dello Stato che non sono assicurate dai ricavi della fiscalità complessiva.
Le emissioni in deficit pubblico devono essere commisurate al prodotto interno lordo. Per gli accordi di Maastricht, il requisito essenziale per entrare nell’ambito della moneta unica è che il deficit pubblico non superi annualmente il 3% del PIL. Negli anni passati questa percentuale è stata anche molto più alta, fino ad oltre il 12% in momenti di gravi difficoltà per lo Stato italiano.

La perversione consiste nel fatto che tali emissioni vengono calcolate sulla base di quanto prodotto dai cittadini, ma non vengono erogate a favore di coloro che con il proprio lavoro ne hanno consentito l’emissione.
Al contrario, vengono poste a loro carico. Infatti, le emissioni in deficit pubblico vanno ad aggravare il debito pubblico e questo si scarica prima o poi sulla fiscalità ordinaria.
Con l’assurda conseguenza che più si produce e più ci si indebita in termini assoluti. In effetti, il debito pubblico dello Stato italiano ha raggiunto nel 2000 la rispettabile cifra di 2.500.000 miliardi.

Per fare fronte a questa cifra spaventosa, gli italiani dovrebbero lavorare per oltre dieci anni senza tenere nulla per sé, vale a dire senza mangiare senza bere, senza tempo libero, senza fare figli, stando attenti persino a respirare.
Capite qual è l’assurdo? Che un gruppo di signori, ignoti ma non tanto, che detiene la maggior parte di questa ricchezza finanziaria non solo usufruisce di ricchezze spaventose, ma soprattutto ha il potere di decidere della vita e della morte di intere popolazioni sulle quali esercita il potere per mezzo del debito.

Il meccanismo si risolve in una sottrazione di ricchezza alla popolazione che non usufruisce di ritorni dal mondo della finanza. E questo, ovviamente, aumenta il divario tra ricchi e poveri.

La seconda cosa che il modello nasconde, è che per mantenere la crescita del sistema, è necessario un tasso di fiscalizzazione crescente, ovvero, in alternativa, un indebitamento pubblico crescente.
Anche se cercano di spacciarlo per un sintomo di ricchezza, l’aumento delle tasse comporta da sempre una diminuzione della ricchezza soprattutto per le classi più povere.
Vi faccio un esempio concreto.
Una mia giovane amica con cui ogni tanto condivido i viaggi da pendolare, lavora come impiegata presso un’agenzia di viaggi romana.
Com’è noto, è fortunata ad avere un lavoro di questi tempi. Per otto ore di lavoro che diventano dieci e più sommando i tempi del pendolarismo, guadagna, lorde in busta, 2.400.000 il mese, che si riducono ad un milione e mezzo per effetto delle varie ritenute.

E’ innegabile che sia un buono stipendio, dati i tempi, però lei fatica ad arrivare alla fine del mese, pur spendendo solo lo stretto indispensabile per vivere. Vorrebbe sposarsi, ma il fidanzato guadagna più o meno come lei e in due hanno difficoltà a mettere da parte qualche soldo per la festa, il viaggio di nozze, i mobili, la cucina e magari pensare di fare qualche figlio. Figuriamoci per comprare casa!
Riflettendo sulle tasse, lei ha fatto questo ragionamento. Il mio stipendio lordo è di 2.400.000 lire, che è quanto il mio datore di lavoro spende, ma a me arriva in tasca solo un milione e mezzo.

Non ho però finito con ciò di pagare tasse, dato che qualunque cosa acquisti, dalla benzina ai vestiti, dal pane alla luce elettrica, anche se mi è strettamente indispensabile per vivere e lavorare, è a sua volta gravata di tasse, e non certo in misura irrisoria. Con l’Iva al 20% praticamente su tutto e le altre tasse ed accise sulla produzione e sul lavoro, il prezzo di ogni bene è formato per almeno il 50% da tasse, dato che com’è noto le imprese scaricano sui prezzi le tasse che pagano.
La mia amica conclude che il suo stipendio è quindi gravato da tasse per oltre il 70%.
Se la volete leggere in termini temporali, lei lavora per lo Stato da gennaio fino a settembre inoltrato, e tutto ciò solo per avere il diritto di ottenere lo stretto necessario per vivere.

Se volesse comprare casa, dovrebbe indebitarsi, accendendo un mutuo con una banca e gravandosi dei relativi interessi che ne diminuirebbero ulteriormente il tenore di vita già ai limiti della povertà. Per colmo d’ironia, questa ragazza è considerata nel comune modo di sentire, una persona fortunata!
All’estremo opposto, vediamo quello che può accadere ad una persona che abbia duecento milioni da investire e che sia disposto a perderli senza subire gravi conseguenze.
Duecento milioni è una cifra relativamente modesta su un mercato, come quello italiano, in cui ogni giorno si trattano cinquemila miliardi di lire e ancora di più su quello americano, dove ogni giorno le azioni trattate assommano a quattro milioni di miliardi di lire.

Il nostro investitore fa le sue brave considerazioni e poi sceglie di investire su un titolo che gli sembra buono. Ne acquista cento azioni a cento dollari, spendendo circa 23 milioni.
Il giorno dopo, il titolo in questione scende violentemente del 20%. Non è una follia, è quello che accade quotidianamente a centinaia di titoli sul mercato americano. A fine seduta il nostro investitore acquista duecento azioni a 80 dollari, spendendo altri 36 milioni.
Il giorno successivo, però il titolo continua a scendere, e ancora nella percentuale record del 20%. I tecnici di borsa direbbero che il titolo si trova in una situazione di ipervenduto.
Il nostro non si perde d’animo e acquista adesso 400 azioni a 64 dollari l’una, spendendo 58 milioni. In totale il nostro ha investito 118.680.000 lire e possiede adesso 700 azioni del titolo. E’ altamente probabile che a questo punto il titolo risalga con altrettanta violenza, anche se in genere si attesta al di sotto del livello da cui è partita la discesa.

E’ sufficiente che il titolo del nostro investitore arrivi a 85 dollari perché lui guadagni in pochi giorni, sull’intero investimento 18 milioni, ovvero proprio lo stipendio che la mia amica pendolare riceve per un anno di lavoro.
E se il titolo dovesse scendere ancora, il nostro è pronto ad effettuare nuove mediazioni al ribasso. Se poi il titolo dovesse crollare i casi sono due: o è la fine del capitalismo finanziario, e allora i soldi non servono più a nessuno, né all’investitore né all’impiegata, o la scelta del titolo era clamorosamente sbagliata ed allora, incassate le perdite, il giochetto si può ripetere su altri titoli.

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