Fonte:Blog di Beppe Grillo
Tremorti è in giro per l’Europa a parlare di Nuovo Ordine Mondiale. Lo psiconano inizia a nutrire qualche preoccupazione per l’economia. La Marcegaglia degli inceneritori annuncia un rischio povertà. L’Italia produce sempre meno, - 0,9% il PIL nel 2008. L’Italia si indebita sempre di più, il debito pubblico è di quasi 1.700 miliardi di euro. Dall’inizio dell’anno centinaia di migliaia di precari hanno perso il lavoro in silenzio. Tecnicamente non erano dipendenti, ma lavoratori a progetto. Terminato il finto lavoro a progetto, in realtà un vero lavoro continuativo, tutti a casa senza nessun paracadute sociale grazie alla legge Maroni intestata a Biagi. Il precario del 2007 è diventato il non licenziato del 2009. Nè vivo, nè morto, uno zombie sociale.
Le fabbriche chiudono senza sosta nell’indifferenza dell’informazione. Dei manifestanti non si occupa la solidarietà pubblica. Il manganello della Polizia arriva invece implacabile sul cranio del cassintegrato, del disoccupato, del padre di famiglia che alza la voce. Gli stabilimenti Fiat di Pomigliano D’Arco hanno funzionato solo per poche settimane dall’agosto 2008, sono a rischio chiusura. La protesta è finita a mazziate la scorsa settimana sull’autostrada. Non è l’unica, sono decine, note però solo ai mazziati e ai mazzolatori. I lavoratori dell’INNSE, fabbrica chiusa dopo decenni, sono stati caricati il 9 febbraio a Milano. Un militare per ogni bella ragazza e un celerino per ogni operaio disoccupato.
Ormai parlare degli zoccoli dei bisonti è riduttivo. Ogni giorno mi arrivano appelli di lavoratori di aziende che chiudono da ogni parte d’Italia.Testa d’Asfalto si preoccupa delle intercettazioni e di fare propaganda elettorale in Sardegna mentre l’Italia affonda. Le isole di disoccupazione sono ancora a macchia di leopardo, ma entro giugno si salderanno tra loro. I celerini non basteranno, bisognerà chiedere aiuto ai caschi blu. A inizio gennaio il PIL per quest’anno era -1%, dopo poche settimane siamo arrivati a previsioni di -3%. Il gettito fiscale diminuirà per l’effetto combinato di chiusura delle fabbriche e della caduta dei consumi. L’ultimo salvagente di Tremorti per continuare a pagare le pensioni e gli stipendi dei quasi quattro milioni di dipendenti pubblici sono i titoli di Stato. Tra nuove emissioni e titoli in scadenza sono da acquisire dal mercato centinaia di miliardi di euro per coprire il debito dello Stato. Insieme ai nostri ci saranno, però, anche migliaia di miliardi di euro di titoli messi in vendita dagli altri Stati. Che sono meno indebitati di noi e senza rischio default. Tremorti è ormai in pieno delirio. Se lo intervisti fugge. Quando parla da solo nomina il Nuovo Ordine Mondiale. Se non sarà tsunami, mi mangio il cappello.
lunedì 16 febbraio 2009
lunedì 9 febbraio 2009
Confronto rendimento Fondi – Tfr
Anno 2008
www.sbilanciamoci.info
NEL 2008 SI È PERSO QUASI IL 6% DEL RISPARMIO PREVIDENZIALE AFFIDATO AI FONDI, MENTRE IL TFR LASCIATO IN AZIENDA SI RIVALUTAVA DEL 3,1%.
TRABALLA IL SECONDO PILASTRO DELLA VECCHIAIA, E CON ESSO TUTTO IL SISTEMA COSTRUITO NEGLI ANNI IN CUI LA FINANZIARIZZAZIONE DELL'ECONOMIA E’ STATA ESTESA AL WELFARE.
Come era inevitabile, la profonda crisi finanziaria in atto in tutto il mondo sta manifestando i suoi effetti distruttivi di risparmio anche sui bilanci dei fondi pensione privati.
In Italia, oramai da diversi mesi, i dati progressivamente resi noti dai fondi, dalle associazioni di categoria e dalla Covip segnalano che il confronto tra i rendimenti offerti dalla previdenza complementare e quelli maturati dal Tfr lasciato in azienda volge a favore di questi ultimi.
Nel corso del 2008, la media ponderata dei rendimenti maturati da tutti i comparti operanti nell’insieme dei fondi negoziali (gestiti da rappresentanti delle imprese e dei lavoratori) è stata negativa; è stato annullato il 5,9% del risparmio previdenziale ad essi affidato.
I risultati dei fondi aperti (gestiti da istituti finanziari), che si affidano maggiormente agli investimenti azionari e comunque più rischiosi, registrano una perdita superiore, pari all’8,6%.
Il Tfr lasciato nelle aziende si è invece rivalutato del 3,1% (2,7% al netto del prelievo fiscale).
Se dai dati medi si passa a quelli dei singoli comparti di ciascun fondo, mentre i più prudenti registrano risultati positivi (ma solo quelli garantiti e non tutti), le linee che includono investimenti azionari hanno raggiunto perdite massime del 28% tra i fondi negoziali e del 39% tra i fondi aperti.
A fronte di questi dati, diversi commentatori e operatori del settore della previdenza complementare si soffermano sulla considerazione che, nonostante i terribili andamenti dei mercati finanziari, l’adesione ai fondi pensione risulta ancora conveniente perché consente ai lavoratori di acquisire i contributi aziendali e i vantaggi fiscali che invece non avrebbero lasciando il Tfr in azienda.
In effetti, l’aggiunta dei benefici aziendali e fiscali alla contribuzione dei lavoratori in alcuni casi ha aumentato il rendimento dei fondi fino a valori superiori a quello del Tfr.
Ma questo risultato si è verificato solo nei comparti e nei periodi meno penalizzati dalla crisi finanziaria, ed è peraltro favorito nei casi di lavoratori con retribuzioni più elevate in quanto beneficiano di contribuzioni aziendali maggiori in valore assoluto e di sgravi fiscali più che proporzionali (essendo parzialmente commisurati all’aliquota fiscale marginale).
Nel dibattito sono emerse anche proposte per intervenire a favore degli iscritti ai fondi che vanno in pensione in questo periodo, penalizzati dunque dalle perdite finanziarie subite negli ultimi mesi; si tratta di preoccupazioni per certi aspetti comprensibili, tanto più che finora gli interventi pubblici hanno fronteggiato essenzialmente le voragini di bilancio degli istituti finanziari - che pure hanno molta responsabilità nella crisi in corso - mentre hanno dedicato molte meno attenzioni concrete ai danni subiti dai lavoratori e dai pensionati.
Sia la sottolineatura dei benefici derivanti dalla contribuzione aziendale e dagli sgravi fiscali sia la richiesta di garanzie pubbliche contro le perdite sui mercati finanziari, oltre a suscitare questioni di merito, rischiano di distogliere l’attenzione da importanti aspetti la cui considerazione è invece necessaria per una corretta impostazione della politica previdenziale.
Le performances dei fondi pensione nel 2008 prima richiamate sono molto preoccupanti.
Giustamente si sostiene che, considerata la particolare gravità della crisi che stiamo attraversando, sarebbe fuorviante basarsi solo su quei dati per derivarne valutazioni complessive sul ruolo dei fondi pensioni.
Tuttavia, proprio la profondità e la natura della crisi in atto - che non riguarda solo la sfera finanziaria dell’economia ma anche quella reale, che segnala evidenti carenze in impostazioni analitiche e politiche negli ultimi decenni - impone ripensamenti complessivi in materia economica e sociale e, più specificamente, delle scelte in campo previdenziale.
Per il sistema pensionistico, le vicende finanziare con le quali la crisi si è finora più visivamente manifestata sono rilevanti non solo per gli effetti sui bilanci dei fondi pensione di cui si è visto, ma ancor più perché indicano la necessità di un riesame delle modalità applicative dell’approccio multi pilastro, ovvero dei ruoli che più opportunamente dovrebbero essere affidati ai sistemi pubblici a ripartizione e a quelli privati a capitalizzazione, distinguendo nei secondi tra i fondi negoziali e quelli gestiti direttamente da istituti finanziari.
Per certi aspetti niente affatto secondari, la crisi in atto conferma meccanismi e precetti che non avevano bisogno di ulteriori verifiche. Felice Roberto Pizzuti - www.sbilanciamoci.info - (da: vincenzotripodi@)
www.sbilanciamoci.info
NEL 2008 SI È PERSO QUASI IL 6% DEL RISPARMIO PREVIDENZIALE AFFIDATO AI FONDI, MENTRE IL TFR LASCIATO IN AZIENDA SI RIVALUTAVA DEL 3,1%.
TRABALLA IL SECONDO PILASTRO DELLA VECCHIAIA, E CON ESSO TUTTO IL SISTEMA COSTRUITO NEGLI ANNI IN CUI LA FINANZIARIZZAZIONE DELL'ECONOMIA E’ STATA ESTESA AL WELFARE.
Come era inevitabile, la profonda crisi finanziaria in atto in tutto il mondo sta manifestando i suoi effetti distruttivi di risparmio anche sui bilanci dei fondi pensione privati.
In Italia, oramai da diversi mesi, i dati progressivamente resi noti dai fondi, dalle associazioni di categoria e dalla Covip segnalano che il confronto tra i rendimenti offerti dalla previdenza complementare e quelli maturati dal Tfr lasciato in azienda volge a favore di questi ultimi.
Nel corso del 2008, la media ponderata dei rendimenti maturati da tutti i comparti operanti nell’insieme dei fondi negoziali (gestiti da rappresentanti delle imprese e dei lavoratori) è stata negativa; è stato annullato il 5,9% del risparmio previdenziale ad essi affidato.
I risultati dei fondi aperti (gestiti da istituti finanziari), che si affidano maggiormente agli investimenti azionari e comunque più rischiosi, registrano una perdita superiore, pari all’8,6%.
Il Tfr lasciato nelle aziende si è invece rivalutato del 3,1% (2,7% al netto del prelievo fiscale).
Se dai dati medi si passa a quelli dei singoli comparti di ciascun fondo, mentre i più prudenti registrano risultati positivi (ma solo quelli garantiti e non tutti), le linee che includono investimenti azionari hanno raggiunto perdite massime del 28% tra i fondi negoziali e del 39% tra i fondi aperti.
A fronte di questi dati, diversi commentatori e operatori del settore della previdenza complementare si soffermano sulla considerazione che, nonostante i terribili andamenti dei mercati finanziari, l’adesione ai fondi pensione risulta ancora conveniente perché consente ai lavoratori di acquisire i contributi aziendali e i vantaggi fiscali che invece non avrebbero lasciando il Tfr in azienda.
In effetti, l’aggiunta dei benefici aziendali e fiscali alla contribuzione dei lavoratori in alcuni casi ha aumentato il rendimento dei fondi fino a valori superiori a quello del Tfr.
Ma questo risultato si è verificato solo nei comparti e nei periodi meno penalizzati dalla crisi finanziaria, ed è peraltro favorito nei casi di lavoratori con retribuzioni più elevate in quanto beneficiano di contribuzioni aziendali maggiori in valore assoluto e di sgravi fiscali più che proporzionali (essendo parzialmente commisurati all’aliquota fiscale marginale).
Nel dibattito sono emerse anche proposte per intervenire a favore degli iscritti ai fondi che vanno in pensione in questo periodo, penalizzati dunque dalle perdite finanziarie subite negli ultimi mesi; si tratta di preoccupazioni per certi aspetti comprensibili, tanto più che finora gli interventi pubblici hanno fronteggiato essenzialmente le voragini di bilancio degli istituti finanziari - che pure hanno molta responsabilità nella crisi in corso - mentre hanno dedicato molte meno attenzioni concrete ai danni subiti dai lavoratori e dai pensionati.
Sia la sottolineatura dei benefici derivanti dalla contribuzione aziendale e dagli sgravi fiscali sia la richiesta di garanzie pubbliche contro le perdite sui mercati finanziari, oltre a suscitare questioni di merito, rischiano di distogliere l’attenzione da importanti aspetti la cui considerazione è invece necessaria per una corretta impostazione della politica previdenziale.
Le performances dei fondi pensione nel 2008 prima richiamate sono molto preoccupanti.
Giustamente si sostiene che, considerata la particolare gravità della crisi che stiamo attraversando, sarebbe fuorviante basarsi solo su quei dati per derivarne valutazioni complessive sul ruolo dei fondi pensioni.
Tuttavia, proprio la profondità e la natura della crisi in atto - che non riguarda solo la sfera finanziaria dell’economia ma anche quella reale, che segnala evidenti carenze in impostazioni analitiche e politiche negli ultimi decenni - impone ripensamenti complessivi in materia economica e sociale e, più specificamente, delle scelte in campo previdenziale.
Per il sistema pensionistico, le vicende finanziare con le quali la crisi si è finora più visivamente manifestata sono rilevanti non solo per gli effetti sui bilanci dei fondi pensione di cui si è visto, ma ancor più perché indicano la necessità di un riesame delle modalità applicative dell’approccio multi pilastro, ovvero dei ruoli che più opportunamente dovrebbero essere affidati ai sistemi pubblici a ripartizione e a quelli privati a capitalizzazione, distinguendo nei secondi tra i fondi negoziali e quelli gestiti direttamente da istituti finanziari.
Per certi aspetti niente affatto secondari, la crisi in atto conferma meccanismi e precetti che non avevano bisogno di ulteriori verifiche. Felice Roberto Pizzuti - www.sbilanciamoci.info - (da: vincenzotripodi@)
sabato 7 febbraio 2009
Caso Di Bella
A cura di A.N.F.C.C.
A sostegno della effettiva validità terapeutica del MDB non vi sono solo le testimonianze di pazienti documentate da cartelle cliniche e referti diagnostici, comprovanti numerosi casi di remissione della malattia, fino a guarigione completa, ma prove scientifiche accertate e pubblicate. Basti pensare alla letteratura internazionale ove vi sono riportati centinaia di studi clinici di fase II, (sull’uomo), già avvenuti con esito favorevole riguardanti farmaci e sostanze utilizzate nella terapia Di Bella. Sostenere che tale cura non è efficace perché non ha validità scientifica, è un falso dichiarato, in quanto la documentazione in oggetto comprende una vastità enorme di studi comprovanti. Da una ricerca effettuata nella principale banca dati bio-medica mondiale (MED LINE EXPRESS), sono stati evidenziati fino al 1998, 1163 studi clinici sull’uomo riguardanti l’utilizzo di farmaci inerenti al MDB (somatostatina, melatonina, vitamina E, acido retinico, vitamine C, D, bromocriptina ecc.). Autorevoli riviste scientifiche come il British Journal Cancer riportano studi sulla melatonina e acido retinoico che induce l’apoptosi (morte) nelle cellule tumorali 1998; l’azione oncostatica della melatonina è comprovata da studi pubblicati sulla rivista: Journal Pineal Res del 1997. Il National Library of Medicine “Il trattamento con melatonina ed acido retinoico determina la morte delle cellule del cancro al seno, USA 1998. Sono solo alcuni esempi tra le centinaia di pubblicazioni che sono facilmente reperibili. Va ribadito con estrema importanza, che tutte le sostanze citate sono elencate negli informatori farmaceutici nazionali e sono state approvate dal Ministero della Sanità e quindi possono essere prescritte. La letteratura a tale riguardo (Articoli scientifici sull’uomo su farmaci di origine biologica usati nel cancro a cura di VacciNetwork) conduce a quanto da sempre sostiene il prof. Di Bella, ma non solo. Il Prof. Umberto Veronesi ex ministro della sanità, nel corso della riunione della Commissione Oncologica Nazionale del 14 gennaio 1998, convocata per l’organizzazione dei protocolli della sperimentazione del MDB disse testualmente:”sia la somatostatina sia i retinoidi sono farmaci sicuramente interessanti, in quanto hanno già dimostrato nei studi un’azione biologica antiproliferativa e un’attività differenziatrice (azioni che contrastano il tumore). Veronesi non si è limitato a semplici affermazioni, ma sulla stampa nazionale (vedi Il Giornale del 22-9-01) ribadisce l’utilizzo della somatostatina nella terapia oncologica, unitamente alle altre sostanze, come cura in alternativa alla chemioterapia. Dichiarazioni supportate da cifre: “il 25% dei pazienti trattati hanno ottenuto una riduzione drastica del tumore, mentre gli altri hanno beneficiato di un arresto della malattia”. Il Prof. Paolo Preziosi farmacologo e membro della Cuf sulla rivista della Società Italiana di Farmacologia scrive: “Per quanto concerne uno dei componenti della cura Di Bella, la somatostatina o il suo analogo (octreotide), una serie molto numerosa di osservazioni sperimentali eseguite su cellule tumorali umane, poste in vitro, ne hanno documentato l’attività antineoplastica in tumori della prostata, mammella, pancreas, colon, polmone ed in altre forme di tumori solidi per i quali le terapie tradizionali si rivelavano a volte inefficaci”. Ancora Veronesi annuncia la “scoperta” della fenretinide che salva dal tumore su Repubblica del 4.11.99 e Tempo Medico del 15.12.99, Repubblica del 24.05.1999:”Una pillola contro il cancro, nuova terapia per prevenire i tumori al polmone”. Una scoperta che non ha nulla di sensazionale in quanto si tratta di una analogo sintetico della vitamina A, parente stretto dell’acido retinoico tutto trans, che il Prof. Di Bella utilizza da decenni nel suo protocollo, prima ancora del 1987, quando un gruppo di oncologi si sono messi a studiarne l’effetto, e sicuramente anteriore al 1993, data in cui compaiono le prime affermazioni di Veronesi a sostegno della validità terapeutica dell’acido retinoico. Da una ricerca bibliografica negli ultimi 20 anni, gli studi condotti su questa sostanza sono ben 179, comprovanti l’effetto combinato con altre sostanze e per la cura di diversi tumori. Una netta smentita a chi sostiene che non esista letteratura scientifica a riguardo né la combinazione di farmaci tra di loro come terapia anticancerogena. La somministrazione, trova rispondenza ed efficacia , riducendo la tossicità di altre sostanze tossiche quali i chemioterapici, i quali somministrati a basse dosi, possono essere definiti “biocompatibili”, (come prevede il MDB che associa l’acido retinoico all’Endoxan, un citostatico, unitamente alle altre sostanze).
Veronesi appare come coordinatore di uno studio di fase II (sull’uomo) nel 1993, e iniziato nel 1997, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista “European journal of cancer”, lo stesso si ripete dichiarando sul Journal Cell. Biochem, Suppl. del 2000, la validità dei meccanismi d’azione del retinoide sintetico fenretinide. Appare lampante quindi che Veronesi da sempre abbia sostenuto le tesi che a Di Bella vengono contestate, a maggior ragione quando ci si accorge che in tale bibliografia citata, il suo nome appare in ben 16 studi, ma solo nel 1993, mentre Di Bella ne parla già negli anni 70 e 80.
Come ultimo sfogliando l’Informatore Farmaceutico troviamo una specialità medicinale registrata con il nome di VESANOID a base di acido retinoico approvata dalla Cuf indicata per le leucemie promielocitiche acute. Il prezzo è di lire 841mila a confezione. L’analogo galenico prescritto dal prof. Di Bella non supera le 70mila lire e fa parte della sua prescrizione. Un farmaco che smentisce le dichiarazioni rilasciate dagli oncologi che sostengono non vi siano prove dell’utilizzo delle sostanze anticancerogene nella farmacopea ufficiale.
Infine l’ultima conferma recentissima di questi giorni, è lo studio pubblicato sulla rivista Cancer Biotherapy and Radiopharmaceuticals, rivista americana di grande autorevolezza, condotto su 20 pazienti affetti da Linfoma Non Hodgkin a basso grado di malignità in stadio avanzato, e curati con la terapia Di Bella. Lo studio condotto dal dottor Mauro Todisco si è basato sulla somministrazione di somatostatina, acido retinoico, bromocriptina, melatoniana e Acth. L’esito favorevole ha dimostrato l’efficacia della terapia.
A sostegno della effettiva validità terapeutica del MDB non vi sono solo le testimonianze di pazienti documentate da cartelle cliniche e referti diagnostici, comprovanti numerosi casi di remissione della malattia, fino a guarigione completa, ma prove scientifiche accertate e pubblicate. Basti pensare alla letteratura internazionale ove vi sono riportati centinaia di studi clinici di fase II, (sull’uomo), già avvenuti con esito favorevole riguardanti farmaci e sostanze utilizzate nella terapia Di Bella. Sostenere che tale cura non è efficace perché non ha validità scientifica, è un falso dichiarato, in quanto la documentazione in oggetto comprende una vastità enorme di studi comprovanti. Da una ricerca effettuata nella principale banca dati bio-medica mondiale (MED LINE EXPRESS), sono stati evidenziati fino al 1998, 1163 studi clinici sull’uomo riguardanti l’utilizzo di farmaci inerenti al MDB (somatostatina, melatonina, vitamina E, acido retinico, vitamine C, D, bromocriptina ecc.). Autorevoli riviste scientifiche come il British Journal Cancer riportano studi sulla melatonina e acido retinoico che induce l’apoptosi (morte) nelle cellule tumorali 1998; l’azione oncostatica della melatonina è comprovata da studi pubblicati sulla rivista: Journal Pineal Res del 1997. Il National Library of Medicine “Il trattamento con melatonina ed acido retinoico determina la morte delle cellule del cancro al seno, USA 1998. Sono solo alcuni esempi tra le centinaia di pubblicazioni che sono facilmente reperibili. Va ribadito con estrema importanza, che tutte le sostanze citate sono elencate negli informatori farmaceutici nazionali e sono state approvate dal Ministero della Sanità e quindi possono essere prescritte. La letteratura a tale riguardo (Articoli scientifici sull’uomo su farmaci di origine biologica usati nel cancro a cura di VacciNetwork) conduce a quanto da sempre sostiene il prof. Di Bella, ma non solo. Il Prof. Umberto Veronesi ex ministro della sanità, nel corso della riunione della Commissione Oncologica Nazionale del 14 gennaio 1998, convocata per l’organizzazione dei protocolli della sperimentazione del MDB disse testualmente:”sia la somatostatina sia i retinoidi sono farmaci sicuramente interessanti, in quanto hanno già dimostrato nei studi un’azione biologica antiproliferativa e un’attività differenziatrice (azioni che contrastano il tumore). Veronesi non si è limitato a semplici affermazioni, ma sulla stampa nazionale (vedi Il Giornale del 22-9-01) ribadisce l’utilizzo della somatostatina nella terapia oncologica, unitamente alle altre sostanze, come cura in alternativa alla chemioterapia. Dichiarazioni supportate da cifre: “il 25% dei pazienti trattati hanno ottenuto una riduzione drastica del tumore, mentre gli altri hanno beneficiato di un arresto della malattia”. Il Prof. Paolo Preziosi farmacologo e membro della Cuf sulla rivista della Società Italiana di Farmacologia scrive: “Per quanto concerne uno dei componenti della cura Di Bella, la somatostatina o il suo analogo (octreotide), una serie molto numerosa di osservazioni sperimentali eseguite su cellule tumorali umane, poste in vitro, ne hanno documentato l’attività antineoplastica in tumori della prostata, mammella, pancreas, colon, polmone ed in altre forme di tumori solidi per i quali le terapie tradizionali si rivelavano a volte inefficaci”. Ancora Veronesi annuncia la “scoperta” della fenretinide che salva dal tumore su Repubblica del 4.11.99 e Tempo Medico del 15.12.99, Repubblica del 24.05.1999:”Una pillola contro il cancro, nuova terapia per prevenire i tumori al polmone”. Una scoperta che non ha nulla di sensazionale in quanto si tratta di una analogo sintetico della vitamina A, parente stretto dell’acido retinoico tutto trans, che il Prof. Di Bella utilizza da decenni nel suo protocollo, prima ancora del 1987, quando un gruppo di oncologi si sono messi a studiarne l’effetto, e sicuramente anteriore al 1993, data in cui compaiono le prime affermazioni di Veronesi a sostegno della validità terapeutica dell’acido retinoico. Da una ricerca bibliografica negli ultimi 20 anni, gli studi condotti su questa sostanza sono ben 179, comprovanti l’effetto combinato con altre sostanze e per la cura di diversi tumori. Una netta smentita a chi sostiene che non esista letteratura scientifica a riguardo né la combinazione di farmaci tra di loro come terapia anticancerogena. La somministrazione, trova rispondenza ed efficacia , riducendo la tossicità di altre sostanze tossiche quali i chemioterapici, i quali somministrati a basse dosi, possono essere definiti “biocompatibili”, (come prevede il MDB che associa l’acido retinoico all’Endoxan, un citostatico, unitamente alle altre sostanze).
Veronesi appare come coordinatore di uno studio di fase II (sull’uomo) nel 1993, e iniziato nel 1997, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista “European journal of cancer”, lo stesso si ripete dichiarando sul Journal Cell. Biochem, Suppl. del 2000, la validità dei meccanismi d’azione del retinoide sintetico fenretinide. Appare lampante quindi che Veronesi da sempre abbia sostenuto le tesi che a Di Bella vengono contestate, a maggior ragione quando ci si accorge che in tale bibliografia citata, il suo nome appare in ben 16 studi, ma solo nel 1993, mentre Di Bella ne parla già negli anni 70 e 80.
Come ultimo sfogliando l’Informatore Farmaceutico troviamo una specialità medicinale registrata con il nome di VESANOID a base di acido retinoico approvata dalla Cuf indicata per le leucemie promielocitiche acute. Il prezzo è di lire 841mila a confezione. L’analogo galenico prescritto dal prof. Di Bella non supera le 70mila lire e fa parte della sua prescrizione. Un farmaco che smentisce le dichiarazioni rilasciate dagli oncologi che sostengono non vi siano prove dell’utilizzo delle sostanze anticancerogene nella farmacopea ufficiale.
Infine l’ultima conferma recentissima di questi giorni, è lo studio pubblicato sulla rivista Cancer Biotherapy and Radiopharmaceuticals, rivista americana di grande autorevolezza, condotto su 20 pazienti affetti da Linfoma Non Hodgkin a basso grado di malignità in stadio avanzato, e curati con la terapia Di Bella. Lo studio condotto dal dottor Mauro Todisco si è basato sulla somministrazione di somatostatina, acido retinoico, bromocriptina, melatoniana e Acth. L’esito favorevole ha dimostrato l’efficacia della terapia.
Telefonini-tumori, il collegamento esiste
Tratto da http://punto-informatico.it/p.aspx?i=2080057
Roma - Si affrettano a spiegare che sono comunque necessari ulteriori approfondimenti, ma la notizia che i ricercatori dell'Università Medica svedese di Orebro hanno lanciato ieri nel Mondo è esplosiva: a loro dire esiste una relazione evidente tra uso dei cellulari e possibilità di sviluppo dei tumori, un rapporto causa-effetto che fino ad oggi nessuno studio aveva esplicitato con certezza.
Adnkronos, che ha diffuso in Italia la notizia, sostiene che i ricercatori guidati dal professor Lennart Hardell abbiano spiegato come l'uso intensivo del telefono cellulare per un periodo di tempo prolungato, superiore ai 10 anni, raddoppi il rischio di sviluppare tumori come il glioma e il neuroma.
L'agenzia di stampa si riferisce in particolare a quanto pubblicato dagli scienziati sulla rivista Occupational Environment Medicine, dove si parlerebbe di una meta-indagine, ossia di una valutazione di 18 diverse ricerche sul tema, "11 delle quali - scrive l'Adn - riferivano risultati ottenuti con osservazioni a lungo termine, di oltre 10 anni". È valutando quei dati, dunque, che sarebbe emersa la relazione causa-effetto, dove le persone "che usano il cellulare per almeno 10 anni corrono un rischio 2,4 maggiore di sviluppare neuromi acustici", e 2 volte superiore di incappare in gliomi. Nel primo caso si tratta di tumori benigni che attaccano il nervo uditivo, nel secondo si tratta di patologie maligne ben più invasive e di difficile estirpazione.
Così come è riportata, la notizia non sembra confermata dall'Hindustan Times, secondo cui non si sarebbe trattato di una meta-indagine ma di una ricerca vera e propria condotta su 1.429 soggetti colpiti da tumori al cervello benigni e maligni e su un campione di 1.470 persone in salute che vivono in Svezia.
La diversa impostazione non cambia alcune delle conseguenze dello studio. Il giornale indiano spiega come gli scienziati ritengano che i telefonini possano rappresentare un rischio soprattutto per chi abita nelle zone rurali, dove cioè la potenza del segnale viene aumentata per compensare la distanza dalle stazioni base di telefonia mobile. Hardell, secondo il Times, avrebbe dichiarato: "Abbiamo riscontrato che il rischio di tumore al cervello è più elevato per chi vive in campagna piuttosto che in città. Più forte il segnale, maggiore il rischio".
Su una cosa, peraltro, le due versioni concordano, che i rischi sulla salute non possano essere evidenziati prima dei 10 anni di utilizzo intenso.
Dello studio esiste peraltro una terza versione pubblicata dall'agenzia sudafricana News24, secondo cui Hardell&C. avrebbero spiegato come l'analisi di studi precedenti dimostri "un percorso chiaro di aumento di rischio per neuroma acustico e glioma".
La novità, rispetto alle altre "versioni" citate, è che il rischio sarebbe maggiore sul lato della testa che si usa abitualmente per parlare al cellulare. News24 conferma peraltro che di meta-indagine si sia trattato e spiega come questi risultati siano dovuti proprio alla possibilità concessa da questo studio di vedere le cose dall'alto e analizzare le evidenze emerse in numerose diverse tipologie di ricerca.
E Hardell proprio a questo attribuirebbe l'assenza fin qui di una correlazione certa tra cellulari e rischio tumore. A suo dire gli studi precedenti non hanno seguito quanto accadeva per un tempo sufficientemente lungo. "Ma ora è passato abbastanza tempo da quando i cellulari sono stati introdotti - sostiene il giornale sudafricano - per analizzare i rischi dell'uso del cellulare per 10 anni o più, un periodo di tempo che viene ritenuto un minimo periodo ragionevole per valutare il rischio".
Secondo l'Adnkronos, infine, Hardell avrebbe dichiarato che "questi risultati sono di grande rilevanza ma saranno sicuramente necessari ulteriori approfondimenti". Secondo News24, invece, gli approfondimenti saranno necessari "perché un aumentato rischio anche per altri generi di tumori non può essere escluso". Due affermazioni dalle conseguenze evidentemente molto diverse.
Roma - Si affrettano a spiegare che sono comunque necessari ulteriori approfondimenti, ma la notizia che i ricercatori dell'Università Medica svedese di Orebro hanno lanciato ieri nel Mondo è esplosiva: a loro dire esiste una relazione evidente tra uso dei cellulari e possibilità di sviluppo dei tumori, un rapporto causa-effetto che fino ad oggi nessuno studio aveva esplicitato con certezza.
Adnkronos, che ha diffuso in Italia la notizia, sostiene che i ricercatori guidati dal professor Lennart Hardell abbiano spiegato come l'uso intensivo del telefono cellulare per un periodo di tempo prolungato, superiore ai 10 anni, raddoppi il rischio di sviluppare tumori come il glioma e il neuroma.
L'agenzia di stampa si riferisce in particolare a quanto pubblicato dagli scienziati sulla rivista Occupational Environment Medicine, dove si parlerebbe di una meta-indagine, ossia di una valutazione di 18 diverse ricerche sul tema, "11 delle quali - scrive l'Adn - riferivano risultati ottenuti con osservazioni a lungo termine, di oltre 10 anni". È valutando quei dati, dunque, che sarebbe emersa la relazione causa-effetto, dove le persone "che usano il cellulare per almeno 10 anni corrono un rischio 2,4 maggiore di sviluppare neuromi acustici", e 2 volte superiore di incappare in gliomi. Nel primo caso si tratta di tumori benigni che attaccano il nervo uditivo, nel secondo si tratta di patologie maligne ben più invasive e di difficile estirpazione.
Così come è riportata, la notizia non sembra confermata dall'Hindustan Times, secondo cui non si sarebbe trattato di una meta-indagine ma di una ricerca vera e propria condotta su 1.429 soggetti colpiti da tumori al cervello benigni e maligni e su un campione di 1.470 persone in salute che vivono in Svezia.
La diversa impostazione non cambia alcune delle conseguenze dello studio. Il giornale indiano spiega come gli scienziati ritengano che i telefonini possano rappresentare un rischio soprattutto per chi abita nelle zone rurali, dove cioè la potenza del segnale viene aumentata per compensare la distanza dalle stazioni base di telefonia mobile. Hardell, secondo il Times, avrebbe dichiarato: "Abbiamo riscontrato che il rischio di tumore al cervello è più elevato per chi vive in campagna piuttosto che in città. Più forte il segnale, maggiore il rischio".
Su una cosa, peraltro, le due versioni concordano, che i rischi sulla salute non possano essere evidenziati prima dei 10 anni di utilizzo intenso.
Dello studio esiste peraltro una terza versione pubblicata dall'agenzia sudafricana News24, secondo cui Hardell&C. avrebbero spiegato come l'analisi di studi precedenti dimostri "un percorso chiaro di aumento di rischio per neuroma acustico e glioma".
La novità, rispetto alle altre "versioni" citate, è che il rischio sarebbe maggiore sul lato della testa che si usa abitualmente per parlare al cellulare. News24 conferma peraltro che di meta-indagine si sia trattato e spiega come questi risultati siano dovuti proprio alla possibilità concessa da questo studio di vedere le cose dall'alto e analizzare le evidenze emerse in numerose diverse tipologie di ricerca.
E Hardell proprio a questo attribuirebbe l'assenza fin qui di una correlazione certa tra cellulari e rischio tumore. A suo dire gli studi precedenti non hanno seguito quanto accadeva per un tempo sufficientemente lungo. "Ma ora è passato abbastanza tempo da quando i cellulari sono stati introdotti - sostiene il giornale sudafricano - per analizzare i rischi dell'uso del cellulare per 10 anni o più, un periodo di tempo che viene ritenuto un minimo periodo ragionevole per valutare il rischio".
Secondo l'Adnkronos, infine, Hardell avrebbe dichiarato che "questi risultati sono di grande rilevanza ma saranno sicuramente necessari ulteriori approfondimenti". Secondo News24, invece, gli approfondimenti saranno necessari "perché un aumentato rischio anche per altri generi di tumori non può essere escluso". Due affermazioni dalle conseguenze evidentemente molto diverse.
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